Economia del profitto, economia del dono-(Cesare Frassinetti economista)

Meeting promosso ad Assisi nel 2003 dal Mandir della Pace-Sezione Etica\Economia

Il tema che mi è stato affidato è particolarmente interessante perché si inquadra nel dibattito socio-culturale dei nostri tempi rappresentato, in sintesi, dalle seguenti posizioni:
a) coloro che vivono bene in questa società e fanno di tutto per conservarla;
b) coloro che ne percepiscono le insufficienze, ma credono che al massimo si possano portare alcuni miglioramenti;
c) coloro che credono che si possa, anzi si debba cambiare la società.
Quello che mi impressiona è che le due prime posizioni si manifestino e persistano di fronte a quel fiume di statistiche di cui oggi fruisce il mondo occidentale e che, per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza nel mondo, così si sintetizzano: non più del 18% della popolazione mondiale (essenzialmente l’Occidente ed i clan dirigenti dei Paesi poveri) si appropria dell’86% della ricchezza mondiale; al 62% della popolazione viene lasciato un ben modesto 13% della ricchezza complessiva; il 20% più povero (nell’ordine di 1 miliardo e 200 milioni di persone) deve arrangiarsi con l’1%.
Data la macroscopica ingiustizia che denuncia, non c’è bisogno d’avere frequentato campi di guerriglieri per affermare che la situazione è obiettivamente rivoluzionaria; eppure gli opinion makers occidentali, i cervelli prezzolati dei poteri forti, riescono ancora a far passare le seguenti convinzioni:
1) che è tutto naturale che la società sia così strutturata;
2) un po’ più sottile, che sussiste in ciascuno la possibilità di ascesa nella scala sociale, basta addestrarsi nello sgomitare;
3) che è necessario che i ricchi diventino sempre più ricchi proprio al fine di consentire che agli strati più poveri della popolazione giungano le briciole del banchetto dell’occidente colto e laborioso. (trikle-down)
Andando più nel profondo di questa rappresentazione della realtà troviamo il denominatore comune di questo stato di cose: l’egoismo, considerato ancora in modo più o meno consapevole, come il vero movente dell’azione economica dell’essere umano. ( il self-interest di smitiana memoria)
E’ su questa base che si regge il sistema socio-economico dominante – il capitalismo appunto- che da secoli cambia periodicamente pelle: dal capitalismo mercantile del tardo medioevo, al capitalismo industriale della fabbrica e della catena di montaggio, al così detto capitalismo cognitivo alimentato dalla rivoluzione informatica.
Si deve riconoscere che ha la pelle molto dura e una grossa capacità, direi, camaleontica: ma sta crescendo, o sta tornando ad esplicitarsi, la consapevolezza delle sue contraddizioni, a cominciare da quella profonda asimmetria che corre fra chi detiene e gestisce il fattore capitale e chi non possiede altro che la propria testa e le proprie braccia. Sta riemergendo una domanda antica: come mai un padrone, se non è dissennato, muore molto più ricco di quando è nato, mentre un lavoratore muore, se tutto va bene, poco meno disagiato di quando è venuto al mondo?
Ma dove sta scritto che i criteri per la ripartizione della ricchezza debbano essere quelli conseguenti alle dinamiche di potere che si scatenano nel brodo di cultura della proclamata libertà assoluta di mercato, ambito nel quale, come l’esperienza dimostra, si affermano normalmente i più furbi e spregiudicati, i più egoisti appunto.
Certamente l’intraprendenza, l’innovazione, l’attitudine ad assumere i rischi d’impresa vanno riconosciute, ma non certo sacralizzati come avviene attualmente.
Non è un caso, ad esempio, che rispetto al “rischio d’impresa”, che tanto peso riveste nella giustificazione del profitto, la stessa parola “programmazione” sia stata bandita dalla vulgata neo-liberista.
Siamo al paradosso che mentre si accetta che pochi giganti transnazionali, i veri padroni del mondo che gestiscono oltre 1/4 della ricchezza mondiale, circa la metà del commercio mondiale, larga parte delle transazioni sui mercati finanziari, programmino loro la nostra vita nell’unica ottica del loro massimo profitto nel più breve tempo possibile e considerano come poveri utopisti, sognatori nostalgici di fallite pianificazioni tutti coloro, anche accademici, che richiamano la necessità di una programmazione democraticamente partecipata quale strumento per assicurare un tendenziale equilibrio fra i bisogni reali dell’umanità, a partire da quelli insoddisfatti dei più diseredati: nel nuovo che auspicano gli economisti alternativi c’è il principio che la vera misura della giustizia è la condizione degli ultimi e l’utilizzo delle risorse nel quadro delle compatibilità ecologiche. L’assunzione di queste coordinate rende il coefficiente di rischio delle singole imprese, e quindi la motivazione del profitto, fortemente ridimensionato.
Ancora, proprio il progressivo affermarsi del capitalismo cognitivo, caratterizzato dall’apporto sempre maggiore della ricerca scientifica e tecnologica alla creazione di valore, rende i beni prodotti ed i servizi prestati come terminali di una filiera in cui l’intelletto generale, cioè l’apporto di intelligenza che l’umanità ha prodotto e continua progressivamente a produrre, assume un peso sempre più consistente come fattore produttivo di valore.
E allora la domanda: perché di questa dotazione collettiva dovrebbe fruirne prevalentemente l’imprenditore? Non è allora proprio così “naturale”, come si vorrebbe far credere, che la curva di accumulazione dei profitti stia seguendo un andamento esponenziale, mentre quella dei salari è sostanzialmente piatta: sono i rapporti di forza che si traducono in soldoni ( i profitti) per i padroni (forse il linguaggio non è politically correct per i Fassino, ma per me si).
E’ proprio per la nostra, diciamo distrazione, che continuiamo a considerare il profitto come fonte indiscutibile per la remunerazione del capitale: il fascino, non tanto discreto della borghesia colpisce ancora.
Premesso tutto questo, resta comunque fermo che anche nell’impostazione alternativa dell’economia, i principi di efficacia ed efficienza restano cardini dell’organizzazione dei fattori produttivi, cioè del fare impresa. Ciò che cambia radicalmente è che dalla separazione asimmetrica fra capitale e lavoro si passa ad un modello di impresa che fa coincidere il fattore lavoro ed il fattore capitale ( cioè l’organizzazione cooperativa).
Certo che il potere che si è concentrato nelle strutture portanti del neo-liberismo, e cioè le transnazionali, è di tale spessore che sembra quasi illusorio il tentativo di incidere sullo stesso per stabilire le condizioni per superarlo.
Ma le sue contraddizioni interne, alcune già richiamate, cominciano a scalfirlo: sempre in tema di contraddizioni possiamo ancora richiamare il contrasto crescente fra la necessità assoluta che il capitale ha, per rimanere in piedi, di produrre sempre di più ed i limiti oggettivi che le risorse naturali presentano; oppure gli shock finanziari di portata sempre più vasta che si sono susseguiti in particolare nell’ultimo decennio con conseguenze sociali disastrose: milioni di disoccupati quando il tifone finanziario cambia meridiano.
Per quanto mi riguarda non ho dubbi sulla necessità di cambiare il sistema e di cambiarlo insieme con urgenza e saggezza. In Chiapas ricorre un detto: “noi non abbiamo orologi, abbiamo il tempo”.
Questo mi sembra voglia dire che dobbiamo ben calibrare e tenere fermi gli obiettivi cui vogliamo pervenire e cadenzare il passo verso gli obiettivi stessi misurandolo rispetto alle opportunità e difficoltà che la realtà ci presenta.
E qui viene una domanda sempre attuale: cosa deve cambiare nell’essere umano perché si decida o continui ad impegnarsi per la realizzazione di una società diversa e cioè visibile per tutti?
Il sistema imperante (l’economia del profitto) si nutre di razionalismo funzionale che porta a considerare gli altri in funzione dei nostri interessi: costituisce l’ Io come ombelico del mondo e tutti gli altri come satelliti di questo sole; ne consegue la situazione di sfruttamento della stragrande maggioranza dell’umanità da parte di pochi ( circa 350 megamiliardari posseggono una ricchezza pari al reddito di due miliardi e mezzo di persone dei paesi poveri).
Tutto mi sembra indicare la necessità di un cambiamento di rotta e possibilmente radicale perché non si possono mettere pezze nuove su vestiti logori, come ancora sostiene buona parte dello sbiadito socialismo europeo. Radicalità che deve fondarsi sulla piena presa di coscienza che per recuperare i valori oscurati del Bonum comune si deve ritessere la trama di una società disgregata è necessaria l’assunzione da parte di ciascuno del principio di responsabilità nei confronti del prossimo: vale a dire del principio secondo il quale la crescita dell’identità personale, l’esplicitazione della vera ragione per cui siamo al mondo avviene in funzione della capacità di dono che riusciamo ad esprimere nella relazione con gli altri, a cominciare dagli ultimi.
Sul piano culturale si muovono in questa direzione due significative correnti di pensiero, l’una sociologica, l’altra filosofica.
Sul piano sociologico, rispetto alle grandi scuole, l’una individualistica (l’azione deriva dal calcolo fondato sull’interesse personale) l’altra definita “olistica” (è la società che preesiste all’individuo e sono pertanto prioritari gli interessi collettivi), troviamo una terza scuola definita “il terzo paradigma” secondo la quale, alla base della socialità si trova ogni azione o prestazione effettuata senza attesa, garanzia e certezza di ricambio, cioè con un contenuto di “gratuità”: non nega l’influenza dell’elemento individualistico o dell’interesse collettivo, ma afferma che il legame sociale si costruisce essenzialmente nella dimensione del dono ed è più confortante del valore d’uso e del valore di scambio. Questa corrente sociologica vuole in sostanza esprimere un messaggio di liberazione dalle logiche, rispettivamente, del contrattualismo, proprio della dogmatica del mercato, o dalla obbligatorietà imposta dai pubblici poteri.
D’altra parte, a ben riflettere, nessuna struttura sociale durerebbe a lungo se alla base non ricorressero elementi di fiducia, di gratuità (cioè non legati all’esclusiva logica del do ut des, o dell’obbedienza al Capo o al Partito).
Ne deriva che la struttura organizzativa più vicina al principio del legame sociale fiduciario è la struttura associativa, a partecipazione diffusa, nella quale i compiti funzionali sono assolti sotto la forma della personalizzazione. Si tratta di dilatare la “reciprocità”, dal rapporto debito-credito secondo logiche contabili, al rapporto più autenticamente umano (relazione fra uguali) della “reciprocità” nell’indebitamento di tutti verso tutti. Sul piano filosofico, frequentando Arturo Paoli come si fa a non riferirsi al grande filosofo Levinas: trovate in libreria due testi molto preziosi, uno appunto di Arturo e l’altro di Gianluca De Gennaro, un giovane e bravo filosofo, che cercano , potremmo dire, di spezzare il pane del messaggio non facile di Levinas. Nel rimandare a quei testi mi limito a riportare alcuni pensieri di Levinas:
“Solo un soggetto che mangia può essere per l’altro: questo essere per l’altro, che vuol dire assumere significato, è possibile solo nella donazione del pane che io stesso mangio. Ma per questo bisogna preliminarmente godere del proprio pane, non tanto per avere il merito di darlo, ma per dare il proprio cuore, per darsi donando”.
Ancora: “Questo sguardo che supplica ed esige….. privo di tutto perché avente diritto a tutto e che si riconosce solo donando….., questo sguardo è appunto l’epifania del volto come volto. La crudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare…..”.
E infine: “La traccia del trascendente è la prossimità di Dio nel volto del mio prossimo”.
Che fosse necessario un filosofo ebreo per rinverdire nella mente dei cristiani l’insegnamento di Gesù di Nazareth, quel suo “Amatevi come io vi ho amati” e cioè fino al dono della vita?
Mi sembra comunque un fatto meraviglioso che culture di diversa provenienza concordino nel riconoscere la necessità di nuove modalità di relazione fra gli esseri umani.
Nell’ambito di queste premesse anche l’economia, sia pure lentamente, si muove verso una nuova dimensione, verso l’obiettivo centrale di rispondere alle necessità di vita di tutti e, ripeto, a partire dagli ultimi perché è sulla condizione di questi che si misura il successo dell’economia.
Le coordinate ci sono tutte, a partire dalle indicazioni che vengono al sistema produttivo dalle compatibilità ecologiche che assumono, proprio in conseguenza della politica di rapina finora seguita, una rilevanza sempre maggiore: è infatti sulla base di queste compatibilità che si deve ridefinire in radice “che cosa, come e per chi” organizzare e finalizzare i processi produttivi cioè il fare impresa.
L’attuale codice civile definisce l’impresa come organizzazione dei fattori produttivi al fine del conseguimento del profitto, dovremo cambiare il codice, non certo per eliminare il falso in bilancio, ma per cambiare le finalità dell’impresa che deve essere quella di soddisfare bisogni reali: non è la quantità di dividendo che riesco ad assicurare, costi quel che costi sul piano sociale, bensì la qualità di soddisfacimento dei bisogni cui l’attività d’impresa è finalizzata.
Coniugata con una programmazione partecipata dal basso ai vari livelli istituzionali l’impresa e l’economia nel loro insieme finiscono dal continuare a svolgere un ruolo egemonico sulla società (da vera cupola mafiosa), ma ne diventano parte, strumenti, entro una logica complessiva di perseguimento del bene comune della società che vuol dire di recupero delle vere finalità della politica con la p maiuscola.
El camino se hace andando: non partiamo certo da zero, come la globalizzazione del business anche i valori della solidarietà e della giustizia si sono venuti globalizzando e in tutto il mondo si sta sviluppando quell’arcipelago di attività che viene attualmente catalogato nella categoria del “terzo settore”. Denominatore comune l’obiettivo di fare impresa in vista di bisogni reali e con la partecipazione diretta e corresponsabile di tutti i componenti. E’ in questa cultura solidaristica che si riconoscono le forze che formano il “Social forum”.
Nonostante la pelle di coccodrillo anche i padroni, come richiamato all’inizio cominciano a percepirlo.
Coloro che partecipano a queste esperienze, e fra noi ce ne sono tanti, ne conoscono insieme speranze e difficoltà: sono convinti di avere imboccato la strada giusta, ma nel contempo sentono il bisogno di consolidarsi, di crescere per diventare massa critica: ogni mano che si unisce alla nostra è veramente benvenuta.
Un pensiero per chiudere: attraverso le tormentati valli della storia è giunta fino a noi l’eco di un invito antico: ”Abramo esci dalla tua terra”, ecco uscire, decentrarci per incontrare l’Altro attraverso gli altri: questa è la nostra terra promessa.

shantij

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