Nel silenzio, alla ricerca dell’uomo di Stefano Momentè

Intervento per il Meeting L’Oriente incontra l’Occidente, Castello di Torchiagina/Assisi – Sabato 6 settembre 2008

Uno dei canali più noti, fin dall’antichità, per raggiungere sé stessi è il silenzio,
itinerario di ricerca e illuminazione. Lo si ritrova in tutte le Tradizioni: dai Misteri
Orfici ed Eleusini, ai sette anni di silenzio osservati dai discepoli di Pitagora. Per gli
esseni il silenzio era un dovere sociale. Greci e romani lo personificavano con il dio
Arpocrate, rielaborazione di Horus infante nell’atto di succhiarsi il dito. Un gesto da
loro trasformato con facilità nel segno del silenzio di un dio tutto orecchie ma con
la bocca chiusa. Analogamente, il primo insegnamento del Budda è: fai silenzio in te
stesso e ascolta.
Consultando un qualsiasi vocabolario, alla voce silenzio troviamo la seguente
definizione: mancanza completa di suoni, rumori, voci e simili; cessazione del parlare;
tacere. Può significare anche: regola religiosa o monastica che obbliga a tacere e ad
astenersi da qualsiasi rumore. In molte lingue l’etimo della parola si relaziona con la
radice indoeuropea si (legare), che spicca nel sanscrito si-nômi, si-nâmi, lego.
Silenzio, quindi, come atto del legare, del trattenere.
Se la parola silenzio indica mancanza di suono, l’idea opposta è proprio quella del
suono-rumore. Quest’ultimo è l’effetto di una vibrazione la quale, a sua volta, è
l’effetto di un movimento. La consecutio è: movimento, vibrazione, suono.
Anche la parola è suono e, quindi, effetto della vibrazione; nel caso specifico, delle
corde vocali. Secondo la Tradizione vedica per tacere occorre arrestare il movimento
(vrtti), senza tale arresto le vibrazioni si susseguono determinando suoni-rumori.
Il movimento è rajas, tamas è il suo effetto solidificato, materializzato, fissato: il
suono-vibrazione appunto.
Il silenzio, dunque, è il risultato del far cessare il movimento, diversamente avremo
sempre suono-rumore. Ma chi può far cessare il movimento? Solo la coscienza
deliberante, il sé, il cit, il purusha. Se la coscienza delibera, afferma, determina, può
fermare il movimento e rendere così silenzioso lo strumento sonoro.
Lo stato vibratorio, movimento o impulso originario, in ebraico si indica con Ruach
(x;Wr), spirito, respiro di vita, parola composta da tre consonanti. La lettera Resh (r)
rappresenta il punto iniziale in cui confluisce l’energia (divina), cioè la testa, che
riceve il respiro vitale poi trasformato in pensiero. Attraverso la lettera Vav (w) le
vibrazioni del pensiero vengono tradotte in istruzioni impartiteci dal nostro purusha,
il Centro, la nostra parte più intima. In questa fase il silenzio diventa una virtù
fondamentale.
Essa significa gancio e costituisce il collegamento tra sopra e sotto. L’idea divina
può sia disperdersi, attraverso l’uso incontrollato della parola, sia manifestarsi
tramite il silenzio o l’uso controllato della parola, in quell’aspetto della coscienza
rappresentato dalla lettera Cheth (x).
La Cheth (x) viene attribuita allo stomaco e al recinto protettivo del torace, al cui
interno vi sono gli organi che rendono possibile la vita e che ci permettono di
intraprendere le azioni che manifestano il pensiero originale insito nella materia.
Il segno zodiacale corrispondente alla lettera Cheth (x) è quello del Cancro,
governato dalla luna, che, per quanto riguarda la psicologia umana, corrisponde
all’inconscio, nel quale il seme si sviluppa fino a raggiungere la sua massima
manifestazione.
La parola chiave di Cheth (x), d’altronde, “ricettività”, è particolarmente in sintonia
con la luna, poiché quest’ultima riceve la luce del sole, riflettendola. La virtù del
silenzio e dell’uso controllato della parola svolgono un ruolo fondamentale in questo
processo, in quanto rappresentano gli aspetti chiave del collegamento tra pensiero e
azione, ossia Resh (r) e (Vav (w)) Cheth (x), cioè Ruach.
Non basta però conoscere i meccanismi operativi e tecnici del suono-rumore per
farlo scomparire. Occorre la volontà. Essere coscienti, consapevoli. Dobbiamo quindi
mettere in funzione il cit (coscienza), che ci dà la conoscenza deliberante, il sat per
affermare-essere quella conoscenza, il kriya (l’agire) per mettere in attività pratica il
cit e il sat. Dunque: conosco, affermo e sono (ciò che conosco e affermo).
Nelle Upanishad si dice: Brahman è silenzio. Anche il realizzato-muni è silenzio. Si
afferma ancora che Brahman è pura coscienza, è lo stato in cui la coscienza riposa
in sé stessa, per sé stessa e con sé stessa senza alcuna sovrapposizione di
movimento-vibrazione-suono.
“Quello dal quale le parole e il pensiero recedono, incapaci di coglierlo”.
(Taittitiya Upanishad)
“Coloro che superano questo suono che ha le caratteristiche differenti tornano
a casa nel supremo, silenzioso, immanifesto Brahma, e raggiuntolo non hanno
più caratteri differenti né sono più distinguibili l’uno dall’altro”. (Maitry
Upanishad)
Ora, se un discepolo-iniziato cerca il fondamento ultimo da cui origina il mondo
fenomenico sonoro, deve di conseguenza operare una sadhana (ascesi spirituale)
che porti a questo risultato. Perciò, per il discepolo diligente, il silenzio metafisico,
o la coscienza pura, è l’inizio, la via e la fine del suo iter realizzativo. Quella via
nell’apertura dell’interiorità indicata dall’acronimo alchemico V.I.T.R.I.O.L. (Visita
Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem). Perché il silenzio?
Perché è il fondamento metafisico dell’intero Verbo manifestato, perché è la fonte
da cui siamo partiti e a cui dobbiamo far ritorno. Perché, avendo risonato nel
tempo-spazio i molteplici suoni vitali, decidiamo finalmente di ritornare all’origine
dell’essere che è e non diviene.
Dobbiamo far proprie le parole del Salmo 38 (13-15): “… ma io sono come un sordo
che non ode e come un muto che non apre bocca. Sono come un uomo che non sente e
che non può rispondere con la sua bocca. Perché spero in te, o Eterno, tu risponderai”.
Saper tacere e saper ascoltare (alla guisa di Arpocrate, perché, come afferma Lao
Tzu: Chi sa non parla, chi parla non sa), significa imparare ad essere integri nel
proprio percorso di crescita, significa cominciare a costruirsi quel vaso, nel quale
l’opera alchemica, cioè trasmutatoria, deve compiersi. Non a caso, gli alchimisti
affermano che un tale vaso filosofico deve essere ben sigillato, al fine di non far
evaporare o fuoriuscire le parti volatili della materia prima in lavorazione e di non
permettere alla stessa, di mescolarsi con corpi o sostanze estranee che, entrando nel
vaso, potrebbero inquinare l’Opera e determinarne il fallimento.
Bisogna quindi essere Uno, quell’uno che fa parte del tutto, ma che non si mescola e
non si confonde col tutto. Il vaso alchemico si può associare alla lettera Mem (~)
chiusa (Mem Sofit), simbolo delle acque inferiori sigillate (inconscio) nelle quali
dobbiamo immergerci per purificarci, liberando la luce nascosta, lì rimasta
prigioniera come la kundalini o, se vogliamo, come la bella addormentata.
Il silenzio come tecnica consiste inizialmente nella limitazione dei movimenti
corporei, nel tentativo di ottenere uno stato psicofisico di quiete, di passività
attiva, ottenendo che una parte della mente resti sospesa, in attesa, in modo che
quando si cessa di essere occupati dai suoni esterni si possono prendere in
considerazione quelli interni.
Il segreto sta nel riuscire a raggiungere un grado di introversione tale da avvicinarsi
allo stato di sonno senza cadervi, anzi risvegliandosi. Una condizione di equilibrio
espressa nella Tradizione iniziatica con vari simboli, il più conosciuto dei quali è il
Caduceo ermetico.
Secondo il sistema del Vedanta, per sperimentare il silenzio è necessario inserirsi tra
un pensiero e l’altro. Allargando questo spazio si può occuparlo con la
visualizzazione di un simbolo. Chiunque vi riesca saprà che il focalizzare un simbolo
è un’operazione evocatoria, ossia che suscita risonanze iniziatiche. Per la disciplina
zen questo tipo di identificazione con un simbolo (definita pensare con l’addome)
consiste nel penetrare l’oggetto, nel guardarlo dall’interno.
Possiamo così vedere il silenzio come una metafora che, alla base di una esperienza
diretta, ci rende coscienti che non vi è niente da raggiungere, né ostacolo da
superare. Ossia non vi è un tempo prescritto o un apprendistato da superare per
poter ricevere l’illuminazione.
Il silenzio nutre la parola, e solo quando riusciremo a scoprire la correlazione fra
silenzio e parola, comprenderemo che la parola crea e la parola distrugge.

shantij

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