“Fede e globalizzazione “-Relazione di Susanna Castaldo (antropologa-Docente Università di Cassino)

La globalizzazione significa interconnessione a sempre maggiore distanza, anche all’interno di confini nazionali e tra continenti in una vastissima gamma di aspetti.Le merci che acquistiamo possono provenire da luoghi lontanissimi; persone, i cui antenati vivevano migliaia e migliaia di chilometri di distanza, oggi possono incontrarsi in ogni momento faccia a faccia.In questo scenario di uniformità c’è un senso di perdita culturale: una grande quantità di idee e di modi di fare vengono davvero perduti se non fosse per gli antropologi che li annotano e li registrano. Inoltre, andrebbe rivalutato “il locale”: la vita quotidiana, la partecipazione della gente ad essa. Ciò che è locale tende ad essere “faccia a faccia” vale a dire che si svolge con rapporti duraturi. Le persone sono a stretto contatto e si sorvegliano a vicenda, la reciproca comprensione viene approfondita nel continuo flusso di parole e gesti, relazioni che possono avere un forte contenuto emotivo. Senza dubbio il locale è qualcosa di speciale che non dovrebbe perdersi nel globale.Ci troviamo di fronte ad un mondo diviso in frammenti, in conflitto tra loro, inconciliabili l’uno rispetto all’altro, in lotta per la sopravvivenza, è una prospettiva terrificante. Forse, non è possibile riportare l’equilibrio nel mondo con il solo pensiero, e neppure con la ricerca, ma mettere le cose in ordine può aiutare a impedire che il peggio accada. Su questo tema si sono confrontati molti antropologi che, come si sa, si occupano delle differenze tra culture e conflitti etnici.Nel mondo si costituiscono rapporti tra i popoli sempre più pluralistici, pericolosamente frammentati. Il crollo dell’Unione Sovietica(un entità che neppure sul piano territoriale e spaziale assomiglia alla Russia da cui è nata l’URSS) , per esempio, ha innescato una catena di sconcertanti divisioni e instabilità tutt’altro che trasparenti. Lo stesso dicasi delle rinnovate passioni nazionalistiche in Europa centrale ed orientale, a questo si aggiungano le vaste migrazioni di massa che favoriscono lo scontro tra culture diverse portano a crescenti tensioni interne; il sorgere, in molte regioni del mondo, di movimenti armati a sfondo politico-religioso e la nascita di centri di potere. Questi ed altri fenomeni conseguenti (guerre civili a sfondo etnico, separatismi linguistici, multiculturalismo del patrimonio internazionale) non hanno fatto affiorare l’immagine di un nuovo ordine del mondo. Hanno, per contro, rafforzato la sensazione di dispersione e di particolarismo, di complessità e di mancanza di centro. Tutte queste grandi ed improvvise trasformazioni di questo genere portano con sé nuovi pericoli. Si profila uno scontro tra culture a fronte della massiccia promiscuità di religioni, etnie, situazioni locali e lingue. La coesistenza di tradizioni culturali grandi, ricche, uniche e storicamente sviluppatesi nella maggior parte, se non in tutte le regioni del globo, è fonte di differenze tese ad approfondirsi all’infinito all’interno di differenze, di divisioni che portano ad altre divisioni. A fronte di tutto questo, in un mondo così vario, come avviene la costituzione di un sé sociale o culturale? A quest’interrogativo non emerge la risposta di una struttura sociale stabile, perfino i contenuti e il significato intrinseco di identità durevoli sono soggetti a mutamento.Dopo la scomparsa dei blocchi e delle egemonie, ci troviamo di nuovo in un’era di ramificazioni e intrecci disseminati e differenziati. Nel 1945 esistevano circa cinquanta paesi che si dividevano il resto del mondo in forma di colonie, protettorati e simili. Oggi, invece, ne esistono quasi duecento ed è probabile che il loro numero aumenti. Più ci concentriamo sulle frammentazioni e sui frammenti del nostro mondo, meno sembriamo cogliere l’essenziale di concetti quali compattezza territoriale e tradizionalismi locali.Lingua, religione, etnie e costumi si incrociano a tutti i livelli possibili, in tutti gli angoli e dimensioni possibili; tali livelli sono così tanti che è difficile tracciare i confini e stabilire priorità. Non appena si osserva più attentamente un caso particolare, alle differenze più prossime se ne sovrappongono altre. È difficile trovare una qualche comunanza di idee, di forme di vita, di comportamenti o espressioni che, a sua volta, non si scomponga in entità più piccole e incastrate l’una nell’altra.Nel 1950 erano 58 i paesi membri delle Nazioni Unite, la maggior parte occidentali; nel 1980 erano 158, la maggior parte non occidentali, oggi sono 182 e molti studiosi sostengono che, in prospettiva, si giungerà a cinquemila paesi diversi se la tendenza etnica non venisse meno. In particolare, nel decennio successivo alla caduta del muro di Berlino, al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine della guerra fredda, è andato sempre più aumentato il peso politico delle identità religiose insieme a quelle etniche, linguistiche, razziali e culturali in genere.Una proliferazione di entità autonome, dissimili per carattere e per dimensione, identità che spezzano le tradizioni. Le distinzioni religiose, non solo si moltiplicano, ma diventano sempre più visibili. C’è chi parla di “mali della modernizzazione” come la diffusione dei media, la confusione morale della vita contemporanea .La religione vista come espressione dell’interiorità, “infusa di sentimento”, una fede che conta, che conforta, che sorregge, vincola, benedice, chiarisce, rigenera, salva, redime, riconcilia, è degna del suo nome. Non sempre è necessario giungere a tanto. C’è bisogno di una nuova politica: una politica che nell’autoaffermazione etnica, religiosa, di razza, linguistica o regionale non veda una mancanza di ragionevolezza arcaica, da reprimere o superare, una politica che sia in grado di affrontare questi generi di espressione collettiva. Una politica che analizzi criticamente la realtà e la ordini. Il successo di questa politica dipenderà dalla capacità di trovare le molle che fanno scattare la differenziazione o la divisione delle identità. Bisogna quindi arrivare a una migliore interpretazione della cultura all’interno della quale la convivenza umana avviene attraverso atteggiamenti critici verso modi di pensare che riducono le cose a uniformità, omogeneità, concordanza di vedute e consenso; dobbiamo aprire il posto a concetti quali divergenza, varietà e disaccordo. I paesi non vanno intesi come unità perfettamente integre. Di fronte ad un pulviscolo di culture, etnie, differenze, conflitti religiosi, dobbiamo considerare propaganda l’universalismo e la cittadinanza universale. Per molti paesi questa concezione di universalismo sembra essere un ennesimo tentativo di imporre con la forza al resto del mondo i valori occidentali: un seguito del colonialismo con altri mezzi. Invece i paesi poveri oppongono resistenza alla pretesa di universalità dei diritti dell’uomo affermando che non sarebbero applicabili a loro, ma sarebbero stati inventati dai paesi più ricchi per rendere vano lo sviluppo di quelli più poveri. Tutto il campo del religioso, della fede, di Dio, il campo della “spiritualità” è bandito dalla vita quotidiana, relegato in margine all’esistenza. Tutto il settore spirituale viene ora respinto. Il risultato è : una nuova nevrosi, quella prodotta dal silenzio intorno a Dio. Ecco, quindi, la nostra profonda ferita. L’uomo contemporaneo respinge il senso del trascendente, che è scritto nella sua umanità, poiché la relazione con Dio fa parte dell’uomo. Non sarebbe proprio questa la nevrosi del nostro tempo? La nuova nevrosi è spirituale. È qui che bisogna guarire. Se vogliamo guarire, non bisognerebbe ricominciare a nominare Dio ad alta voce, a parlare di Lui e a rendergli grazie?

shantij

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